Quando il sistema ti tradisce: la mia battaglia per la giustizia e la dignità
Mi chiamo Maurizio, ho 65 anni e sono un cittadino valdostano. Scrivo queste parole con il cuore in mano, nella speranza che qualcuno possa ascoltare la mia storia e comprendere la solitudine che mi accompagna ogni giorno, nonostante la vita che ho cercato di costruire con fatica, sacrificio e impegno.
Per quasi 40 anni, ho lavorato a 2000 metri, contribuendo con il mio lavoro e le mie tasse a costruire quella società che oggi sembra aver dimenticato i suoi figli. Ho sempre cercato di fare la mia parte con il sorriso, anche nei momenti più difficili, ma oggi sono profondamente deluso, arrabbiato e rassegnato di fronte a un sistema che, quando ne ho avuto più bisogno, mi ha voltato le spalle.
Nel 2017 mi diagnosticarono un tumore alla prostata. Dopo numerosi accertamenti, mi operarono e mi consigliarono di seguire un ciclo di radioterapia. L'unico effetto collaterale post-operatorio, piuttosto sfortunato, è stato una semi-incontinenza, che mi costringe ad una quotidianità fatta di fatica, dolore e vergogna.
Non bastava il tumore, non bastava il dolore fisico: il sistema sanitario mi ha chiuso la porta in faccia perché mi mancavano circa 2 anni e 10 mesi per la pensione, ma tale sistema decise che non ero abbastanza invalido per smettere di lavorare, anche se mi mancavano di fatto pochi punti in percentuale per arrivare all’invalidità che serviva per la pensione. Fui dunque costretto a proseguire il lavoro su, a 2000 metri e con il pannolone, potete immaginare il mio disagio in inverno, sono anche portatore di pacemaker.
Durante il primo incontro con il medico per stabilire la radioterapia e, dopo aver esaminato la mia cartella clinica, mi chiese il motivo dell'operazione. Rimasi un attimo sconvolto dalla domanda, ma poi gli spiegai cosa mi avevano detto, ovvero, che il tumore era maligno e che bisognava intervenire chirurgicamente. Sul volto del medico apparve un’espressione di dubbio, ma mi non disse più nulla.
I giorni passavano, ma la sofferenza non si placava ed il mio stato di salute peggiorava. Mi nutrivo praticamente di farmaci per riuscire a stare in piedi ed ogni passo, ogni gesto erano sempre più dolorosi. Le spese per le cure e le visite aumentavano ed il mio stipendio non bastava più. In tutto questo, mia moglie è stata la mia roccia. Si è presa carico non solo della mia salute, ma anche di una burocrazia che non faceva altro che succhiare la nostra serenità. Ogni giorno, una nuova richiesta, una nuova attesa, un nuovo documento. E intanto la vita scivolava via, come acqua tra le dita.
Mi sono rivolto all'INPS, sperando di poter anticipare una parte dei miei contributi. Ma la risposta fu chiara: "Non è possibile. Se vuole, può chiedere un prestito o un contributo alla Regione." Avevo versato centinaia di migliaia di euro all'INPS, ma per il sistema, ero invisibile. Come posso accettare che i miei risparmi, frutto di una vita di lavoro, non possano essere usati per curarmi quando ne ho più bisogno?
Nel 2019 arrivò una proposta dall’ospedale: una soluzione sperimentale che mi sembrava pratica e utile. Ci pensai molto, soprattutto perché la semi-incontinenza mi costringeva ad usare almeno quattro o cinque pannoloni al giorno, decisi, quindi, di accettare e mi sottoposi all’intervento per impiantare il dispositivo. L’operazione andò bene, anche se dopo poco tempo dovetti tornare in ospedale, perché il pulsante che avrebbe dovuto svuotare la vescica a comando, non funzionava.
Nell’aprile 2020, all’improvviso, provai un dolore terribile alle parti basse. Controllandomi, scoprii che qualcosa del dispositivo si era staccato finendo dritto nel testicolo, allungandolo notevolmente. Mia moglie, terrorizzata, chiamò l’ambulanza e mi portarono in sala operatoria d’urgenza. L'intervento durò circa 25-30 minuti. Al termine dell’operazione i medici dissero a mia moglie che, a causa dell’EMERGENZA PANDEMICA, avrebbero dovuto fare l’operazione in due fasi. In pratica, mi avevano operato per rimuovere SOLO la pompetta, lasciando, volutamente, il dispositivo non funzionante dentro di me. Mi rimandarono a casa, e da quel momento iniziò il mio vero calvario. Dolori, svenimenti, bruciori, antibiotici, antinfiammatori... nulla sembrava migliorare, e l’ospedale non mi contattava mai. Mia moglie, esausta, arrabbiata e confusa, passò mesi a telefonare al reparto di urologia del Parini per capire quando avrebbero fatto l’operazione definitiva, visto che la mia situazione peggiorava ogni giorno di più, ma la risposta è sempre stata... “La richiamiamo noi”...
Alla fine, dopo SEI mesi, riuscirono a fare l’operazione. Dopo l’intervento, mi dissero che avevano rimosso tutto ma purtroppo la semi-incontinenza si era trasformata in incontinenza severa. In pratica, da 5 pannoloni che usavo prima ora sono costretto ad usarne tra i 20 e i 25 al giorno. Ma, come mi dissero più volte gli operatori sanitari, senza alcuna sensibilità: "Beh, almeno lei è vivo."
Vivo, ma con il corpo ridotto in pezzi. Con una dignità infranta. La mia vita e quella di mia moglie sono state distrutte, giorno dopo giorno. I due anni successivi furono difficili, persi 13 chili in un mese. Feci continue visite ma senza risposte concrete. Iniziammo a temere che il tumore fosse tornato, ma dopo una serie di esami però, la diagnosi fu negativa: il tumore non c’era anche se la mia condizione, stranamente, peggiorava.
Un giorno mi ricoverarono d’urgenza e, dopo i vari controlli, decisero di mettermi un catetere, che non funzionò, infatti, tre giorni dopo, a causa di dolori intensissimi, mia moglie mi riportò di corsa in ospedale, per rimuoverlo. Nulla cambiò. Mi rimandarono a casa con antibiotici e antinfiammatori, e i mesi continuarono a trascorrere tra sofferenza e frustrazione.
Nel 2023, decisi di fare l’ennesima visita urologica all’ospedale Parini. Mi visitò un medico che non mi conosceva, quindi gli raccontai tutta mia storia soffermandomi sull’operazione incompleta del 2020. Mi chiese perché mi avessero operato in due fasi, e quando gli spiegai quello che avvenne, mi disse che quando si fanno questi interventi bisognerebbe rimuovere tutto. Lo guadai e pensai: “Non deve mica dirlo a me!”. Mi mandò a fare una TAC e, con sorpresa, mi rivelò che all'interno del mio corpo c’erano ancora dei pezzettini non rimossi. Non riuscivo a crederci! Dopo tutti gli esami che avevo fatto, nessuno si era accorto di quei frammenti!
Mi sottoposero ad un altro intervento, che sfortunatamente si rivelò complicato. Questi frammenti si erano ormai inglobati, attaccati ai tessuti dell’uretra e nel rimuoverli, purtroppo, dovettero asportarla completamente. Quando chiesi ai medici da dove sarebbe passava l'urina, dato che il canale era stato rimosso, la risposta, sempre con “molta delicatezza ed empatia”, fu: "Abbiamo creato un'apertura. Ora, praticamente, farà la pipì come una donna!”.
La mia vita è stata distrutta, cambiata irreversibilmente e con essa quella di mia moglie.
Ad oggi mi trovo continuamente a fare i conti con una sanità che fa acqua da tutte le parti, con una burocrazia che ti schiaccia, con un sistema pensionistico che ti promette sicurezza per la vecchiaia e poi ti abbandona nei momenti più cruciali. Ho lavorato una vita intera, ho versato contributi, ma oggi non posso neppure accedere ai miei soldi, quei soldi che potrebbero servirmi nei momenti di necessità.
È questo il Mondo che abbiamo costruito?
Ho voluto raccontare questa storia perché credo che le cose debbano cambiare. Non possiamo più accettare che le istituzioni siano indifferenti alle sofferenze dei cittadini. Non possiamo più tollerare una sanità che non ascolta, una burocrazia che ti consuma, un sistema che non ti protegge quando ne hai più bisogno. Questa non è la società che ho sognato, quella in cui ho creduto, quella per cui ho lavorato.
Termino questa mia lettera aperta nel lasciare un messaggio a chi, come me, sta vivendo questa sofferenza:
A tutte le persone che, come me, si sono trovate ad affrontare una lotta senza fine contro un sistema che non ascolta, a chi ha visto la propria vita cambiare in modo irreversibile e si è sentito invisibile, voglio dire: non siete soli!
So cosa significa lottare con il corpo e con la mente, sentire che ogni giorno è una battaglia in cui non si trova mai una risposta, un sollievo. Ma non dobbiamo arrenderci. La nostra sofferenza, la nostra dignità non possono essere ignorate. Se ci hanno lasciato soli, insieme possiamo far sentire la nostra voce e portare alla luce le ingiustizie.
Non c'è vergogna nel chiedere aiuto, nel voler essere trattati con rispetto e umanità. La solidarietà tra noi è l'unica cosa che può veramente fare la differenza. Quello che mi è successo non è solo la mia storia, è la storia di tanti che ogni giorno combattono con lo stesso dolore, le stesse difficoltà, le stesse disillusioni.
Non lasciamo che questo sistema obsoleto fatto di burocrazia e indifferenza ci distrugga. Uniamoci, facciamo sentire la nostra voce e creiamo il cambiamento che tutti noi meritiamo. La nostra lotta è quella di ogni cittadino che lavora, che contribuisce e che crede in una società giusta. È il momento di far valere i nostri diritti, non solo per noi, ma per tutti coloro che verranno.
Maurizio